Rosella Sensi esclusiva: “Papà Franco merita un ricordo”

ROMA – Rosella Sensi non ha due sorelle, ma tre. Una è la Roma. Lo disse tanti anni fa suo padre: «La Roma è la mia quarta figlia femmina». Forse quella che ha amato di più, a tratti. Di sicuro, sempre parole sue, quella «che mi farà compagnia nella tomba». Non è mai facile parlare della morte di un genitore: che siano passati pochi mesi o quindici anni (oggi) è come scavare tra ricordi che alternano risate e lacrime, sofferenze e momenti indimenticabili. Se poi tutto questo lo hai anche vissuto pubblicamente allora la nostalgia si amplifica. Ma in questa intervista Rosella Sensi non è quasi mai nostalgica: è una donna che parla da figlia, senza dubbio, ma anche da professionista e da tifosa. Racconta chi era suo padre, ma anche chi era il presidente Franco Sensi. Ad oggi l’ultimo capace di vincere uno scudetto con la Roma. Ed è per questo, oltre che per mille altri motivi, che le dispiace constatare con amarezza come «sia ricordato poco, anzi nulla. Dalla città e dalle istituzioni del calcio e dello sport. Di questo sono rammaricata, perché lui ha fatto davvero tanto per la Roma, per Roma e per tutto il movimento sportivo di questo Paese».

Ventitré anni dall’ultimo scudetto, quindici dalla morte di suo padre: da dove partiamo?
«Dai, partiamo dallo scudetto. Almeno è un ricordo positivo, no?».

Si è detto e scritto tanto, forse tutto, di quell’anno magico. Un ricordo che in pochi sanno?
«Lui andava sempre in macchina con il suo autista Vittorio. Facevano sempre la stessa strada, anche se c’era traffico. Io lo seguivo con la mia macchina e lui quando arrivava nei pressi dello stadio amava fermarsi e salutare tutti i tifosi che incontrava. Era disponibile con tutti».

Franco Sensi: padre, marito, nonno, ma anche e soprattutto grande imprenditore.
«In famiglia avevamo le nostre tradizioni, come tutti. E poi c’era la Roma, che non era uno sfondo, ma una compagna di vita. Quando eravamo adolescenti se la squadra perdeva papà non voleva che uscissimo a far serata, diciamo così. E noi gli davamo ragione, anche se a 20 anni volevamo andare a ballare. Ma la Roma per lui, per noi, era una cosa seria».

Inevitabile, visto che nonno Silvio, il padre del presidente, era stato tra i fondatori.
«Io non l’ho mai conosciuto. Ma nei nostri discorsi è sempre stato molto presente».

Suo padre vince lo scudetto, costruisce una grande Roma, poi si ammala, le cede il comando: si ricorda l’ultima cosa che le ha detto?
«Mi ricordo che era in terapia intensiva al Gemelli e anche se aveva un filo di voce voleva sapere tutto. Mi chiedeva tutto. E pochi giorni prima erano andati Totti e Montella a trovarlo: aveva chiesto tutto anche a loro».

Per lei quei giorni furono indimenticabili.
«Già, stavo perdendo mio padre e il giorno prima, il 16 agosto, avevo scoperto di aspettare la mia prima figlia. La vita ti sorprende sempre».

Allenatore di quella Roma, l’ultima vincente fino all’arrivo di Mourinho, era Luciano Spalletti: lo vedrebbe bene in Nazionale?
«Parliamo dell’allenatore Campione d’Italia: cos’altro posso aggiungere io?».

Ha menzionato Totti: per suo padre era il figlio maschio mai avuto.
«Lo ha amato moltissimo e Francesco con lui aveva un legame speciale. Lo ha sempre considerato parte integrante della sua Roma. Non è stato mai sfiorato dal pensiero di cederlo».

Quando lei ha preso il comando della Roma aveva poco più di 30 anni: donna, in un mondo maschilista. Non è stato facile.
«No, ma è stato anche bello. Incinta, con la scorta, non sono stati momenti semplici. Lo ammetto. Ma mi dispiace che spesso si ricordino solo quelli, la Roma per me è stato tanto altro. La quotazione in Borsa, le due coppe Italia, la Supercoppa a Milano, i campionati in cui avremmo meritato di più, le grandi notti europee… Ci siamo anche divertiti, divertiti molto. E abbiamo vinto».

Il giocatore preferito di suo padre?
«Francesco da questo discorso lo togliamo. Tutti quelli dello scudetto, ma anche De Rossi, Perrotta, ho paura di fare un torto a qualcuno».

Batistuta però merita, forse, un discorso a parte.
«Che giornate quelle. L’avvocato a casa, il procuratore, i cronisti fuori al cancello e al telefono…Non arrivava mai, sembrava che questa firma fosse stregata. Quando c’è stata era come una liberazione per tutti noi».

Quando suo padre le ha lasciato la possibilità di firmare e piovevano critiche, anche personali, fortissime, non ha mai pensato che ci fossero troppe responsabilità sulle sue spalle?
«Mai. Mai una volta. E poi fino a che papà era in vita era lui a prendere le decisioni, anche se io ero l’ad. Soprattutto quelle sportive. Per dire Spalletti: intuizione di Daniele Pradè con Bruno Conti, ma fu papà a portarlo alla Roma. Quando ero in difficoltà, quando alcune cose mi sembravano più grandi di me pensavo sempre a cosa avrebbe fatto papà al mio posto».

Bruno Conti dt, Pradè ds, lei ad, Elena Turra all’ufficio stampa, Cristina Mazzoleni responsabile finanziario: un gruppo giovane e a maggioranza femminile, avete anticipato i tempi.
«Un gruppo affiatato e vincente, anche. Le risorse erano limitate, ma la squadra giocava bene e vinceva. Il tempo ci ha dato ragione e ha ristabilito la verità».

Anche perché fino a Mourinho e ai Friedkin non sono arrivati altri trofei.
«Cronaca».

E lei per anni non è andata allo stadio.
«Diciamo che ho preso un periodo sabbatico. Ci sono tornata grazie a questa proprietà che mi ha invitato, così come mi ha invitato a Tirana e Budapest. Da parte mia solo grazie, la Roma vista dal vivo mi mancava».

Oggi ci porta anche le sue figlie.
«Io e loro padre siamo tifosi, sono le nipoti di Franco Sensi e le pronipoti di Silvio Sensi: non potevano non essere romaniste. Ma lo stadio è un’altra cosa rispetto alla tv».

Nella Roma è tornata una Ceo donna, Lina Souloukou.
«Sono molto, molto contenta. Quando ci sono figure apicali importanti al femminile le seguo sempre con interesse. È una tosta, è difficile quando sei in un mondo così, ancora prettamente maschile, affermarti. Il merito è importante, più del genere».

Il suo primo ricordo della Roma?
«Il gol di Turone, papà inferocito davanti alla tv. Ma inferocito davvero, magari ogni tanto l’avete visto anche voi così (ride, ndr)».

Il presidente, effettivamente, quando si arrabbiava si arrabbiava.
«Sì perché aveva un entusiasmo contagioso e quindi quando qualcosa non andava per il verso giusto si imbestialiva. Ecco, mi sembra che oggi quell’entusiasmo lì nel calcio si sia un po’ perso».

Magari può esserci nel femminile? Lei lo segue molto.
«Credo che sia arrivato il momento di un salto di qualità. L’eliminazione della Nazionale al Mondiale è stata una delusione profonda, perché arriva dopo un risultato negativo come quello dell’Europeo. Ma è da questi momenti che in genere nascono opportunità per questo credo che adesso servano competenza, programmazione e investimenti su strutture e settori giovanili».

La Roma che sta nascendo le piace?
«Lasciamoli lavorare. C’è Mourinho: una garanzia».

Gli idoli delle sue figlie?
«Dybala e Pellegrini».

A distanza di anni c’è chi mette in dubbio ancora che ci fossero offerte folli per De Rossi a cui lei ha resistito.
«I 70 milioni del Chelsea erano veri: mai voluto vendere Daniele. Mai».

Aquilani sì.
«Questioni di bilancio, sacrifici di bilancio. Purtroppo. Ma con Alberto ci sentiamo con affetto».

Ripensa mai alle contestazioni nei suoi confronti?
«Sono il passato. Per ogni romanista la Roma è parte della vita, va bene così».

La cosa che le manca di più di suo padre?
«Papà e mamma mi mancano ogni giorno. Mi consola saperli insieme».

Le piacerebbe che, nel nuovo stadio della Roma, ci fosse qualcosa in ricordo di Franco Sensi?
«Mi piacerebbe che fosse ricordato, lo devo ammettere. Per quello che ha dato alla Roma, al calcio e allo sport italiano in generale. E anche alla nostra città. Spero succeda presto, sinceramente».

Ce lo descrive con una parola?
«Ne scelgo tre: entusiasta, onesto, generoso. Franco Sensi, lo scriva, era una persona perbene».


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